Titolo: La linea del colore
Autrice: Igiaba Scego
Editore: Bompiani
Anno di pubblicazione: 2020
Recensione* di: Laura Silvia Battaglia
28 aprile 2020
Non è usuale leggere un romanzo che sia allo stesso tempo fortemente italiano e radicalmente meticcio; che sia un romanzo storico ma con una linea di fantasia che supera la realtà del fatto; che stia in piedi da solo ma in fondo faccia parte di una trilogia; che abbia come protagoniste più donne ma che renda personaggio principale e dominante una città, Roma, che le accoglie tutte. La linea del colore di Igiaba Scego è tutto questo ed è soprattutto il lavoro più ricercato e più maturo della scrittrice afro-italiana, nata a Roma da famiglia di origine somala, da sempre affamata di traiettorie, nella storia, nella geografia e nelle arti, che possano ricomporre il puzzle del mosaico Mediterraneo, delle relazioni tra Italia e (Corno) d’Africa e dello sviluppo delle forme d’espressione di ogni meticciato globale. Dopo Babilonia e Adua, tradotti in diverse lingue all’estero, con La linea del colore la Scego fa i conti, attraverso due narrazioni parallele, con il passato e con il presente, uniti da un comune denominatore: la ricerca di senso connessa alla ricerca della libertà. Libertà di status giuridico, di movimento, di azione, di passione, di espressione. La ricerca accomuna certamente ogni essere umano ma qui accomuna soprattutto umani dalla pelle scura, per secoli schiavizzati, denigrati, considerati prima alla stregua di animali, poi di essere umani inferiori, infine di minus habens destinati ad essere confinati nelle savane o rappresentati come costantemente bisognosi della pietosa mano dell’uomo bianco, colonizzatore anche nell’atto di carità. E in questo abisso – che per la maggior parte delle persone di pelle nera oggi è fastidiosa normalità, ogni volta che, ricorda l’autrice, “mi chiamavano faccetta nera o sporca negra” – Scego si immerge, recuperando la storia della prima femminista e abolizionista nera d’America, Sarah Parker Remond, e della prima artista nera d’America, Edmonia Lewis, fondendole nel personaggio austero e delicato di Lafanu Brown. Lafanu Brown, nata meticcia più meticcia che non si può (indiana d’America per parte di madre, e nera per parte di padre), mai schiava ma nemmeno mai totalmente libera, viene “adottata” da una dama di carità bianca, simpatizzante della causa abolizionista ma soprattutto assetata di eccentrica notorietà. Partendo dalla sua generosità pelosa, Lafanu Brown passerà attraverso una manciata di altre “protettrici”, sperimentando soprattutto la falsità degli ambienti progressisti, insieme alla violenza degli oltranzisti bianchi ma riuscendo a galleggiare nelle tempeste della vita per merito del suo talento artistico e della sua volontà estrema di vivere. Queste caratteristiche non la rendono molto diversa a un altro personaggio, non del passato ma del presente, che trova posto nella seconda linea narrativa del romanzo, dove l’io narrante di nome Leila, giovane afro-italiana – mentre va in cerca delle tracce che l’artista Lafanu Brown avrebbe lasciato nel suo Gran Tour di fine Ottocento – viene costantemente turbata dall’esperienza della cugina somala, Binti, che, dopo il viaggio della speranza verso l’Europa attraverso la Libia, dopo violenze inenarrabili e dopo il ritorno a Mogadiscio, riuscirà a ritrovare se stessa attraverso l’espressione artistica. Tutte queste donne, nel romanzo della Scego, si muovono con delicatezza in una cristalleria d’immagini tardo ottocentesche che ricordano i paesaggi italiani tratteggiati nei diari di viaggio europei di Mary Shelley, le giovani eroine volitive in crinolina e scarponcini celebrate da Luisa May Alcott, gli interni dei palazzetti fiorentini pennellati nelle liriche di Elizabeth Barrett Browning, stralci dell’America sudista nella prosa asciutta e arsa di William Faulkner, ma il linguaggio è terso, chiaro, contemporaneo, e mai fumoso. In questo, lo stile della Scego riflette l’intensità e la bellezza della vera protagonista di questo testo: la città di Roma, descritta come un luogo di anarchica e languida decadenza, ma accogliente, libero e privo di legacci sociali, dove potere trovare rifugio creativo e una nuova identità personale e professionale per diverse tipologie di minoranze, etniche o di genere.
Il volume è impreziosito da una copertina-opera d’arte austera e intrigante della fotografa Ayana Jackson e da un’appendice nella quale il lettore può visualizzare tutti i capolavori di scultura e di pittura che le donne protagoniste incrociano nel loro viaggio in Italia o a cui si ispirano. Una guida per immagini che si aggiunge alla guida delle parole, accurate ed evocative, di Igiaba Scego, entrambe assolutamente indispensabili per comprendere perché l’Italia da sempre sia una terra di mezzo tra l’Africa e l’Europa.
Perché è importante leggerlo.Perché è un libro femminista ispirato a donne realmente esistite che hanno avuto l’estremo coraggio di rischiare la propria vita e la propria reputazione sociale per un sogno di libertà. E perché racconta molto bene anche l’ipocrisia di chi, tra i bianchi e gli occidentali, utilizza le battaglie delle minoranze etniche o di genere per farne banchetto sull’altare della propria vanità politica.
L’autrice della recensione. Sono una giornalista italiana, specializzata in aree di crisi e conflitti dal 2008. Con un particolare focus su Yemen e Iraq, mi sono occupata negli anni di minoranze etniche, religiose e di genere, migrazione, terrorismo e traffico di esseri umani e di armi. Sono autrice e conduttrice per Radio3 e documentarista.
* Recensione pubblicata su Avvenire in data 24 aprile 2020 e gentilmente concessaci dalla sua autrice